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Gay & Bisex

Le valet de chambre


di adad
09.06.2023    |    12.413    |    28 9.8
"Sorgeva al centro di una vastissima tenuta, parte della quale, quella antistante il Palazzo, trasformata in un magnifico giardino all’italiana, ornato di..."
Remy aveva diciassette anni ed era inserviente al Palazzo dei Saint-Fere da quando ne aveva dieci. Era figlio di una serva senza marito e quando lei era morta, la vecchia contessa madre, che le era affezionata, aveva accolto il ragazzino fra i servi di casa, permettendogli così di acquisire una certa educazione e una certa raffinatezza
Era bello, Remy, nel fiore della sua adolescenza, di una bellezza per molti tratti ancora acerba, ma già foriera di un futuro splendore. Era biondo, un biondo oro molto luminoso, come i brutali Lanzi dell’Imperatore, che avevano occupato quelle terre qualche anno prima, nel corso della lunga guerra contro il Re di Francia. Ne erano stati cacciati presto, ma non prima che si lasciassero qualche eredità alle spalle. Il periodo dell’occupazione corrispondeva grosso modo con la nascita del piccolo Remy, come facevano notare certe malelingue; ma la cosa non interessava a nessuno e la protezione della vecchia contessa madre era valsa a tappare le bocche e a far svanire velocemente il ricordo. Ad ogni modo, la verità, ormai, giaceva sotto la croce di legno smozzicato nel piccolo cimitero dietro la chiesa del Redentore.
Ad ogni modo, di chiunque fosse figlio, perché di qualcuno doveva pur esserlo, il giovane Remy aveva sviluppato un fisico robusto e armonioso, completato da un volto regolare, due grandi occhi celesti, e una zazzera indomabile di riccioli d’oro.
La vita trascorreva tranquilla nel Palazzo dei Saint-Fere, ognuno impegnato nei propri doveri, sotto il severo controllo della contessa madre, quando un giorno qualcosa turbò quella pace e il Palazzo si trasformò di botto in un alveare impazzito: il signore di Saint-Fere tornava dalla guerra! E tornava, per di più, conducendo con sé una principessa boema, che il conte aveva sposato, con il consenso del Re, fra una battaglia e l’altra.
La vecchia contessa correva su e giù per le scale del Palazzo, gridando ordini a destra e a manca a servi e fantesche, mai sufficientemente rapidi ad ubbidire. Riaprire e riordinare l’ala nobile del Palazzo, rimasta chiusa e abbandonata, dopo che lei aveva preferito trasferirsi in un quartierino esposto a sud, più caldo e luminoso: tirare a lucido i mobili e spazzare i saloni, ravvivare gli arazzi di Fiandra e battere i preziosi tappeti turcheschi; rifornire di biancheria da tavola e da letto, lini ricamati e cortine di broccato; lavare tutto il lavabile, lucidare tutto il lucidabile, profumare tutto il profumabile: riempire le dispense e le cantine… Carri su carri carichi di prosciutti e di botti pregiate si avvicendavano alla porta delle cucine… e poi carbone per i bracieri, legna per i camini:: il padrone tornava a casa. E portava con sé la sua sposa.
Neanche Remy riuscì a sottrarsi al trambusto e per giorni e giorni si ritrovò a correre per ogni dove, secondo gli ordini della stizzosa contessa.
E finalmente fu tutto pronto, tutto lucido e profumato, ancora più nuovo di quando quelle sale erano state aperte per la prima volta, almeno duecento anni prima.
Il Palazzo di Saint-Fere era in realtà un antico casino di caccia, distante qualche buona lega dalla città: nel corso dei secoli era stato riattato e ingrandito, fino a diventare, ai tempi del trisavolo del defunto marito della contessa madre, la residenza principale della famiglia. Sorgeva al centro di una vastissima tenuta, parte della quale, quella antistante il Palazzo, trasformata in un magnifico giardino all’italiana, ornato di fontane, statue mitologiche e l’immancabile labirinto di alte siepi; il resto era rimasta riserva di caccia per gli svaghi dei Signori, quando non erano impegnati in qualche guerra.
Ed ecco finalmente, sul morire di un caldo pomeriggio di ottobre, in cui la natura tingeva il bosco dei suoi colori più caldi, un servo che era stato di vedetta, corse ad avvisare l’arrivo di un corteo con le insegne del conte. Subito, la contessa madre ordinò di spalancare le porte e, seguita dalle sue dame, dal maggiordomo e altri servitori di livello, scese dabbasso nel cortile ad accogliere il figlio.
Remy non poté allontanarsi dal compito che gli era stato affidato, per cui corse alla finestra per assistere all’arrivo; la finestra, però, era orientata male e l’unica cosa che riuscì a scorgere fu la portiera di una carrozza da viaggio, che si apriva, lasciando uscire alcune dame sconosciute. Dopo qualche altro vano tentativo di vedere qualcosa, il ragazzo tornò al suo lavoro, mentre lo strepito nel cortile si andava calmando, via via che i cavalieri si disperdevano e i cavalli venivano condotti nelle scuderie dai mozzi di stalla.
Era impegnato nel suo lavoro, qualche ora dopo, quando:
“Remy?”, si sentì chiamare.
Il ragazzo si voltò: era il maggiordomo, entrato silenziosamente. Remy lo guardò con aria interrogativa.
“Il signor conte ti vuole nel suo appartamento. - gli disse l’uomo con voce insolitamente cordiale – Ti ha scelto come suo valletto di camera.”
“Me? Ma se non sa neanche che esisto?”
Il maggiordomo sorrise:
“E’ stata la contessa madre a fare il tuo nome. Ti è affezionata, lo sai. Servire il signor conte è un grande onore, non dimenticarlo mai.”
Un grande onore? Remy si sentì sprofondare il pavimento sotto i piedi.
“Che significa?”, balbettò.
“Dovrai servirlo, - spiegò il maggiordomo – dovrai essere la sua ombra, eseguire i suoi ordini, ma soprattutto cucirti la bocca su tutto quello che vedi o senti. Un bravo valletto di camera è sordo, cieco e muto: così mi dissero, quando fui scelto valletto del vecchio conte.”
“Voi?”, si stupì Remy.
“Cominciamo tutti dal basso, - disse l’uomo – e poi saliamo per i nostri meriti.”
Erano intanto arrivati negli appartamenti privati dell’ala nobile e il maggiordomo bussò ad una porta massiccia, poi entrò, dopo alcuni secondi, senza aspettare la risposta: era uno dei suoi privilegi.
“Ecco il ragazzo, signor conte.”, disse al giovane che si era voltato, all’apertura della porta.
“Va pure.”, disse quello con voce profonda e rimase a fissare Remy.
Il ragazzo si sentì a disagio, sotto quello sguardo. Fissò a sua volta il giovane che aveva di fronte: alto, si sarebbe detto possente, così in maniche di camicia, i ruvidi calzoni lunghi da viaggio, che sembravano metterne ancor più in risalto le gambe muscolose.
Era la prima volta che Remy vedeva il conte, che tornava a casa dopo lunghi anni di guerra al servizio del Re. È difficile dire l’impressione che ne ebbe: ne fu indubbiamente colpito, avendolo finalmente davanti, dopo averne sentito parlare per così tanti anni. Provò un’immediata ammirazione per la forza che sprigionava il suo corpo, temprato nelle battaglie, e la fierezza che gli splendeva nello sguardo. Ma nel contempo, tremò all’idea di doverlo servire: si sentiva così misero, così inadeguato. Si inchinò, non sapendo cos’altro fare.
“Signor conte…”, mormorò.
“Vieni avanti, ragazzo. – gli disse quello benevolmente – Come ti chiami?”
“Remy, signor conte.”
“Bene. Io sono il conte Jean di Saint-Fere. La contessa mia madre dice di conoscerti bene e si è degnata di raccomandarti come mio valletto personale.”
“La signora contessa madre è sempre stata buona con me.”, mormorò il ragazzo, chinando la testa.
“E adesso si aspetta che tu ricambi la sua fiducia. Sai quali sono i tuoi compiti?”
Remy non rispose.
“Sarai a mia disposizione e mi servirai, quando te lo chiederò. Non ti allontanerai mai, senza il mio permesso, e resterai sempre a portata di voce… giorno e notte.” Il ragazzo lo fissò con aria interrogativa.
“C’è un letto per te, nella mia camera. Il maggiordomo ti spiegherà il resto. Da te mi aspetto fedeltà e descrizione. Ti senti di giurarmelo?”
Remy si sentì schiacciato, ma riuscì a rispondere:
“Sì, signor conte.”, e piegò il ginocchio a terra, baciando la mano che l’altro gli tendeva.
“Adesso, fammi preparare il bagno, - gli ordinò il conte, tornando ai suoi affari – e avvertimi quando è pronto.”
Remy uscì e si guardò attorno spaesato. Fammi preparare il bagno… Il bagno? nessuno faceva mai il bagno… Lo sapevano tutti che lavarsi era pericoloso, che faceva male alla salute… E poi, dove? L’unico posto dove poteva farlo era il fiume, ma il fiume era lontano e non era certo quella la stagione adatta…
Per sua fortuna, incrociò il signor Antemio, il maggiordomo, il quale non si mostrò sorpreso più di tanto alle sue perplessità.
“I signori hanno le loro manie. – gli spiegò – Anni fa, parecchi anni fa il nonno del signor conte fece costruire uno stanzino da bagno alla moda moresca nel suo appartamento. Da quando è morto, non l’ha usato più nessuno, ma ultimamente la contessa madre lo ha fatto risistemare. Vai dalla signora Elsa, la governante, penserà lei a tutto.”
E così, dopo neanche un’ora, la grande tinozza di quercia era piena di acqua fumante, su cui galleggiava una grossa spugna marina; una pila di candidi teli era accatastata su un tavolo, mentre su una mensola erano poggiate alcune forme di sapone, che emanavano un tenue profumo di rosa.
Remy osservò con sano scetticismo quelle novità, poi raggiunse il conte nelle sue stanze.
“Il bagno è pronto, signor conte.”, disse Remy, entrando nello studiolo, dove il conte, in piedi, esaminava alcuni libri mastri, aperti sul tavolo massiccio.
“Finalmente!”, disse quello e, sedutosi su un seggiolone, allungò una gamba verso di lui.
“Toglimi gli stivali”, gli ordinò.
Tirando con forza, Remy gli cavò prima l’uno poi l’altro stivale. A quel punto, il conte balzò in piedi e si sfilò la camicia, restandogli davanti a torso nudo. Remy non nutriva alcun interesse per la bellezza virile… e a dire il vero neanche per quella femminile, anche se diverse servette avevano cominciato da tempo a ronzargli attorno; ma non poté reprimere la propria ammirazione per la statuaria perfezione di quel torace scolpito da anni di vita attiva. I pettorali erano prominenti, coperti da una leggera peluria ambrata e coronati da due grossi capezzoli bruni; dalle spalle ampie sembravano diramarsi due braccia massicce come rami di quercia. Il ragazzo rimase un attimo col fiato sospeso, prima di tornare rapidamente alla realtà, iniziando con mano malferma a sciogliere ganci e laccetti dei calzoni, che gli sfilò del pari, assieme alle calze, lunghe fin sopra il ginocchio. Il conte indossava adesso solo una sudicia culotte di lino, stretta in vita da una fettuccia annodata.
Remy fece un passo indietro, non sapendo come regolarsi; così fu lo stesso conte a sciogliere il nodo della fettuccia, lasciando che la culotte gli scivolasse lungo le gambe, afflosciandosi a terra.
Nudo, questo giovane Ercole era davvero impressionante, mentre si muoveva con disinvoltura davanti al suo sottoposto, che, dal canto suo, cercava di distogliere lo sguardo, in preda al più vivo imbarazzo. Ma per quanto cercasse di evitarlo, Remy non poteva non lanciargli un’occhiata ogni tanto, in particolare al sesso molle e carnoso, che ciondolava indolente ad ogni passo, sbucando fa una foresta di peli arruffati.
Una cosa che abbiamo taciuto per non offendere la sensibilità moderna, ma che è facilmente intuibile, visti i tempi, è l’odore pesante che si sprigionava dalle membra del giovane conte: un lezzo graveolente di sporco e di sudore stantio, umano ed equino, che lo avrebbe reso ripugnante a ciascuno di noi. Ma per quanto lo avvertisse, Remy non batté ciglio, il suo naso era abituato a cose peggiori, mentre lo seguiva nello stanzino da bagno, in attesa di ordini.
Il conte entrò nella grande tinozza di legno e si sdraiò con un sospiro di goduria, lasciandosi quasi sommergere dall’acqua caldissima. Quando riemerse, aveva un’espressione di beatitudine dipinta sulla faccia.
“Dovevo puzzare parecchio, non è vero?”, gli chiese con un sorriso.
“Non… non saprei, signor conte…”, balbettò il ragazzo.
“Tu invece puzzi, - continuò l’altro – da quanto tempo non fai un bagno?”
“Non l’ho mai fatto, - rispose Remy, con voce adesso più sicura, avendo il
supporto della scienza dalla sua parte – i medici dicono che fa male alla salute…”
“Sciocchezze! – lo interruppe il conte – Vedi quelle mattonelle profumate sul ripiano? Quello si chiama sapone. Prendine una.”
E quando tornò con una di quelle in mano:
“Adesso, bagnala e strofinamela sulla testa.”, gli disse il conte.
Con mano incerta, Remy iniziò a passare il sapone fra le ciocche bagnate, assistendo con divertito stupore al formarsi di una schiuma impalpabile e profumata. Il difficile, però, venne, quando, sciacquati bene i capelli, il conte si alzò in piedi, dandogli le spalle e:
“Lavami la schiena.”, gli ordinò, mentre l’acqua gli ruscellava dappertutto.
Remy sapeva ormai come fare e, sia pure con un po’ di imbarazzo, cominciò a strofinare con cura il sapone sulle ampie spalle del padrone e verso il basso della schiena, proseguendo poi l’opera di pulitura, spalmandogli in lungo e in largo con le mani la poltiglia saponosa.
Ad un certo punto, però, Remy si accorse che non solo l’imbarazzo dei primi momenti era passato, ma quasi gli piaceva, gli piaceva sentire sotto le dita la pelle calda e levigata del giovane signore, i muscoli sodi, che sembravano rispondere con un fremito al tocco delle sue mani.
Arrivato al fondo della schiena, Remy cominciò a spalmare la schiuma profumata su una delle natiche pelose… La mano era esitante, temeva di spingersi troppo oltre… Continuò, aspettandosi un rimbrotto da un momento all’altro; ma il rimbrotto non giunse, nemmeno quando il valletto prese a passare la saponetta su entrambe le natiche e poi a spalmarne la schiuma a tutta mano sui due globi muscolosi, spingendosi audacemente fin nello spacco del culo.
Jean de Saint-Fere, bisogna dirlo, non era un pervertito, come tanti di cui aveva sentito, che si divertivano a privare i ragazzi della loro virtù o con la persuasione o con la forza. Aveva sempre trovato ripugnante perfino il pensiero; però, ad un certo punto, si era reso conto di trovare piacevole, molto piacevole, sentirsi strofinarsi la schiena e oltre dalle mani dei suoi attendenti; mano che però finora non erano masi state così delicate, mentre si insinuavano anche in quei punti, da avrebbero dovuto tenersi lontane.
Certo, quando Remy gli strofinò la saponetta nello spacco del culo, insistendo un momento sul tenero pertugio, si rese conto che avrebbe dovuto girarsi e dargli uno scappellotto, dicendogli di non permettersi più, ma non lo fece, anzi chiuse gli occhi con un’espressione beata, mentre lo scroto gli si raggrinziva e il cazzo, finora pendulo, cominciava a sollevarsi formicolando.
Lasciò che il ragazzo gli insaponasse le cosce muscolose fino ai ginocchi, poi si girò, per fare in modo che Remy lo lavasse anche davanti.
Remy sgranò gli occhi, quando si trovò puntato contro l’uccello duro del suo padrone, deglutì al colmo dell’imbarazzo, mentre si dedicava a detergergli i pettorali scolpiti e l’addome piatto. Sentiva su di sé lo sguardo del padrone, ne sentiva il calore sulla nuca, mentre prendeva a insaponare il cespuglio increspato del pube.
A quel punto, non sapeva che fare, sarebbe stato davvero troppo se… Ma pure, quel sesso proteso, svettante, costituiva un richiamo, a cui trovava sempre più difficile resistere. Cominciò a insaponare lo scroto, che reagì tornando a raggrinzirsi in un grumo peloso; poi prese la verga palpitante e la tenne sollevata per insaponarla lungo tutta la superficie inferiore. Il conte Jean rabbrividì, trattenendo il respiro, mentre Remy, passato il sapone anche nella parte superiore, iniziava un lento, delicato massaggio lungo l’intera asta. Un massaggio innocente, sia ben chiaro, per quanto venato da una sottile, inconsapevole libidine.
Il conte fremeva in maniera incontrollabile, ora: avrebbe voluto dirgli di smetterla, ma non poteva: troppo era l’osceno piacere che lo soverchiava. Ma il peggio sopravvenne, quando, scappellato il glande, l’innocente valletto prese a detergerlo, avvolgendolo e mulinandolo con le dita saponose.
Il piacere stava ormai per travolgerlo, quando il conte si svegliò di scatto dal suo torpore:
“Basta…”, gemette e, tiratosi indietro, sprofondò nella tinozza, spargendone l’acqua sul pavimento per un ampio raggio.
Rimase a lungo sommerso anche con la testa, mentre il sapone si diluiva nell’acqua tiepida, intorbidendola. Finalmente tornò a riemergere:
“Passami l’asciugatoio.”, disse con voce sorda, alzandosi in piedi, con il sesso tornato adesso alla sua normale quiescenza.
Il conte si avvolse nel pesante telo di lino e, uscito dalla tinozza, lasciò che Remy lo aiutasse ad asciugarsi. Infine, vestendo una sontuosa vestaglia di seta:
“Spogliati e lavati.”, ordinò al ragazzo, indicandogli la tinozza.
“Ma, signor conte…”, cercò di protestare Remy, spaventato dai pericoli a cui rischiava di andare incontro.
“E fatti dare degli abiti puliti.”, aggiunse il conte, uscendo per tornare nello studio, alle sue carte.

(continua)
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